“LA MUSA DI ALESSANDRIA
Aprile 2010. Roberta Bellini, laureanda in filosofia, raggiunge Il Cairo per incontrarvi Ahmed, un collega che le ha anticipato via e-mail importanti rivelazioni relative alla tesi di dottorato che la giovane sta compilando. Al centro della sua ricerca è la figura di Ipazia, la filosofa e matematica alessandrina, vittima, nel 415, del fanatismo dei parabalani, istigati dal vescovo cristiano Cirillo. Ad affascinarla è in particolare la possibilità di accedere alle ultime missive della corrispondenza intercorsa tra Ipazia e il suo allievo Sinesio, testimonianza scomparsa della loro intensa condivisione intellettuale, permeata, forse, di riflessioni di natura affatto diversa.
Ashraf Mozaf, un uomo che le sembra di incrociare casualmente all’arrivo nella capitale egiziana, e che solo successivamente si palesa come l’Ahmed delle e-mail, la coinvolge nelle sue peripezie, quale giornalista in rotta di collisione con il pervasivo apparato poliziesco del regime di Hosni Mubarak, ma anche come profondo conoscitore della filosofia neoplatonica ed ellenistica. La conduce pertanto in segreto attraverso il deserto a occidente del Cairo, fino all’oasi di Siwa e alla Pentapoli cirenaica, dove, a Bengasi, incontrano il sapiente Ghassan ibn Sinā, antico maestro di Ashraf, e Odahīr, un misterioso ma geniale adolescente poliglotta, che si unisce ai due nel viaggio via mare fino ad Alessandria, l’antica capitale dell’Egitto ellenistico-tolemaico.
Ne nasce una storia d’amore, tra Roberta e Ashraf, tanto più intensa quanto più a lungo differita, per scelta di entrambi, e infine sublimata in una sorta di Gestalt, con l’immedesimazione dei loro corpi nello spirito della ricerca in corso e dei suoi antichi ispiratori. A conferire ulteriore pathos narrativo, una sorta di pseudobiblion, che completa ciascuna delle cinque parti della storia e che si manifesta per bocca di Ghairam Gherir, una voce fuori campo che si rivolge a una certa Magea mutando costantemente la propria personalità e componendo, con la lettera dell’alfabeto greco che di volta in volta lo qualifica, un acronimo il cui significato, al pari dell’identità dello stesso Ghairam Gherir, viene svelato solo alla fine, temporalmente collocata nel 2021 e sovvertitrice delle certezze che il lettore ha acquisito dalla lettura del precedente testo.
Un romanzo poliedrico nel senso platonico del termine, quindi complesso e regolare, nel quale piani geometrici e temporali diversi si intersecano idealmente con coniche e curve dalle linee eleganti ed essenziali, ponti di collegamento tra “epoche” lontanissime, ma nel rispetto della “epochè”, la sospensione di giudizio atarassico-husserliana. La narrazione accurata, attenta ai dettagli e ricca di sapienti rimandi allo scibile filosofico-scientifico-letterario, incalza il lettore, sollecitandone il desiderio di approfondimento e incuriosendo attraverso ripetute interpolazioni semiotiche, tra significanti formali che sublimano in potenti significati simbolici, con impensabili rimandi alla poesia e a sfuggenti verità oracolari, sentenziate dai sacerdoti dello Zeus Ammone, del quale Alessandro il Macedone si ritenne figlio, o interpretate attraverso la filosofia emergente dagli esagrammi dell’I Ching.
Una lettura intrigante e stimolante, attraverso la quale l’autore sembra voler invitare “ecumenicamente” il lettore al perseguimento della vera conoscenza, attingibile attraverso percorsi molteplici ma ispirati alla ricerca rigorosa e non dogmatica. Una conquista mirabile della quale siamo debitori a quella “rivoluzione dimenticata” realizzata, oltre duemila anni fa, da menti eccelse e predisposte, come la Musa di Alessandria, a quella meraviglia che, come insegnava il “maestro di color che sanno”, è all’origine stessa della filosofia”.